Federico Landi

NON SIAMO MAI STATI OGGETTI

“Non siamo mai stati oggetti” è una ricerca visiva realizzata a seguito della digitalizzazione di 127 manufatti che compongono la collezione Palagi del Museo Civico Medievale.

Il progetto si articola in tre azioni:.

l’esposizione di cinque oggetti della collezione all’interno di un allestimento ideato apposta per la mostra;  per ognuno di questi, la creazione di un’immagine bicromatica ottenuta attraverso la post-produzione della corrispondente fotografia di still life prodotta durante la digitalizzazione;  la raccolta di una serie di fotografie istantanee che ritraggono i vari luoghi che gli oggetti della collezione abitano.

Queste tre azioni, assieme, vogliono indagare il rapporto fra oggetto, contesto ed identità, proponendosi come un gioco di associazioni visive tra le diverse modalità di esistenza di questi manufatti.

Per essere digitalizzato, ogni manufatto, in solitudine, è stato prelevato dalla teca che abita e posto dentro ad un box ad illuminazione controllata, su di un telo bianco, per mostrarsi nell’inquadratura della macchina fotografica in un luogo infinitamente bianco, senza confini né orizzonti. Un artificio visivo, questa è la posizione considerata favorevole per lo studio e l’identificazione dei beni della collezione. Ma ognuno di questi oggetti proviene da luoghi distanti, da tempi diversi, dall’America precolombiana fino alla Cina dell’800.
Ritrarli tutti quanti nelle medesime condizioni, in un “non-contesto”, non mi è sembrato sufficiente per la loro conoscenza, e così ho deciso di seguire le tracce che gli oggetti hanno lasciato nel percorso per arrivare al lightbox, ritrovandoli all’interno di vetrine, schedari, monitor, uffici disseminati per il territorio, database, scrivanie, sotterranei, su supporti fotografici, pellicole negative e bit di dati.

Queste tracce, raccolte in una serie di fotografie istantanee, viste assieme e lette globalmente, danno forma al contesto odierno di questi oggetti. Il leone delle nevi cinese, la ciotola in terracotta, la sfera bruciaprofumi veneto-saracena, il vaso berbero, il vaso zoomorfo chimù, non abitano soltanto le vetrine espositive del museo. Sono in realtà in pellegrinaggio fin dal giorno in cui sono stati ideati.
Hanno circolato e circolano di rappresentazione in rappresentazione, di scenario in scenario, di vibrazione in vibrazione, facendosi contaminare e contaminando tempi e spazi di cui ci è possibile tenere traccia solo parzialmente. La loro identità assume significati diversi a seconda delle formattazioni a cui è sottoposta e dei luoghi in cui risiede. al lightbox, ritrovandoli all’interno di vetrine, schedari, monitor, uffici disseminati per il territorio, database, scrivanie, sotterranei, su supporti fotografici, pellicole negative e bit di dati.

Cinque immagini di still life, realizzate per la digitalizzazione, sono quindi state manipolate, creando delle bicromie che si propongono come auree del reciproco rapporto di influenza tra questi manufatti e l’ambiente, diorami cromatici che accolgono le infinite vite, conosciute e sconosciute, di questi oggetti.

Infine, contesto ed identità dei manufatti sono indagati attraverso la manipolazione delle vetrine espositive in cui sono quotidianamente esposti. Nelle bacheche del museo, i cinque oggetti soggetti delle bi-cromie sono esposti dentro ad un box bianco, dietro ad un plexiglass colorato, visibili soltanto attraverso un filtro che ne altera la percezione.